Intervista di Michela Lupieri – JULIET Art Magazine, may 11, 2015

Recentemente è stato pubblicato Isolario. Appunti geografici sull’opera di Barbara De Ponti dedicato a fornire una rilettura dell’opera e della ricerca di questa artista milanese. A cura di Alessandro Castiglioni, il libro contiene contributi critici di Matilde Marzotto Caotorta, Ermanno Cristini ed Elio Franzini ed è edito da Postmediabooks. Dopo la presentazione alla Triennale di Milano, all’interno del convegno Are there geographies. Pratica artistica e ricerche geografiche, ho incontrato Barbara De Ponti e Alessandro Castiglioni per parlare di connessioni tra la geografia, l’architettura e l’arte nello spazio pubblico.

Nel 2011 iniziate a lavorare insieme a Isolario. Un progetto che non è solo un libro, né un libro d’artista o una semplice raccolta di saggi. Mi piace descriverlo riprendendo le parole di Alessandro, come una “raccolta di appunti geografici” sulla tua pratica artistica Barbara. Vorrei iniziare col chiedervi quali sono state le coordinate da cui ha avuto origine questo lavoro e a quali necessità risponde. Ma, soprattutto, perché questo titolo?
Questo libro è nel complesso un progetto di rilettura e analisi dell’opera di Barbara. È nato come un lungo dialogo, che ancora oggi continua, tra noi due a cui poi si sono aggiunte diverse voci (Matilde Marzotto, Elio Franzini, Ermanno Cristini), come il volume documenta. L’idea, in fondo, era, sin dall’inizio, chiara: valorizzare la componente processuale, la dimensione di ricerca, la posizione indagativa, all’interno del lavoro dell’artista, che ha come principale campo di studio quello della relazione tra uomo e spazio. Questo rapporto è studiato attraverso gli strumenti, visivi e culturali, della geografia antropica, dell’antropologia culturale, dell’architettura e dell’urbanistica. Questi campi sono stati il territorio comune e condiviso in cui il nostro dialogo ha avuto luogo e, proprio per questa ragione, gli argomenti del libro stesso o, per lo meno, le chiavi di lettura attraverso cui ho cercato di riconsiderare l’opera di Barbara. Il libro, seguendo questa direzione, ha come titolo la parola Isolario poiché identifica le prime pubblicazioni cinquecentesche che preludono alla creazione degli atlanti geografici. Si caratterizzavano per una descrizione degli spazi che conservava una forte identità dei luoghi, in linea con quanto documenta questo lavoro che appunto non è un atlante, ma una raccolta di appunti geografici sull’opera di Barbara.

Una particolarità di Isolario riguarda la sua struttura, apparentemente molto rigida. Alle descrizioni sulla pratica di Barbara per mano di Alessandro, si alternano le riflessioni di Ermanno Cristini ed Elio Franzini e la sezione “glossario” curata da Matilde Marzotto Caotorta. In particolare, in questi focus teorici l’autrice analizza alcuni termini chiave legati all’opera dell’artista fornendone una lettura trasversale. Trovo interessante questa struttura, apparentemente rigida, perché è un incrocio di traiettorie, di riflessioni che uniscono l’arte con la filosofia, la letteratura, la storia, la geografia e l’architettura. Mi piacerebbe sapere come mai avete scelto di coinvolgere proprio questi autori, anche in relazione ai vostri progetti personali e perché tu, Barbara, non prendi mai direttamente la parola all’interno del libro. 
Il libro, come il processo del mio lavoro, ha una struttura rigorosa e sfaccettata che propone una lettura a più livelli del percorso teorico. Per Isolario, che ritengo una operazione artistica, ogni autore è stato invitato a cimentarsi con il proprio linguaggio sapendo che il contributo sarebbe stato principio per cambi di prospettiva e per approfondimenti sia per gli altri autori sia per i lettori. Per rimanere coerente con questa modalità mi è sembrato inappropriato intervenire con un mio scritto preferendo documentare le fonti e le sollecitazioni da cui parte il processo di ognuno dei lavori considerati nel libro con Alessandro.

Barbara, tu riconduci il tuo operare artistico alla definizione di luogo usata dalla geografia: ovvero di “misura unita all’esperienza”. Nei tuoi lavori parti sempre dallo studio di documenti e di immagini d’archivio, ricerche meticolose e approfondite che si protraggono per molto tempo e ti permettono di raccogliere dati e raggiungere risultati oggettivi e scientifici. A questo approccio razionale e solitario affianchi, però, esperienze di incontro con le persone. Mi viene in mente ad esempio, il lavoro Speaking Things realizzato a Delft, in Olanda, nel 2009. Un lavoro installativo e di stratificazione di pratiche dove però il meccanismo della relazione è stato il passaggio fondamentale. Questo lavoro mi ha fatto venire in mente le teorizzazioni di Nicolas Bourriaud sull’arte relazionale e due sono le cose che vorrei sapere. In che modo hai attivato i processi di relazione con le persone coinvolte nel progetto? Se ti dovessi definire in quanto artista, ci sarebbe una categoria entro cui ti senti di appartenere?
L’esempio che citi, Speaking Thinks, è il progetto selezionato per la residenza organizzata da id11 a Delft, basata sul rapporto tra artisti e abitanti della città olandese. Mi è stato assegnato un appartamento in un edificio popolare in attesa di essere abbattuto per la riqualificazione urbana. Ogni appartamento occupato da un artista era contrassegnato da una finestra tinta di giallo. L’arte è parte della realtà sociale e gli abitanti si sentono invitati a approfondire la conoscenza dell’ospite e del progetto in realizzazione. Non è stato difficile quindi coinvolgere la popolazione. Ho chiesto di portarmi, per essere fotografato, l’oggetto che rappresentasse la propria relazione con la città. Ogni immagine, con la fettuccia che descrive la scelta, è stata appesa alla mappa disegnata sul soffitto, in corrispondenza dell’indirizzo del proprietario.
Il progredire del lavoro, l’infittirsi della rete, è stata la migliore sollecitazione alla partecipazione. Ogni percorso che si basa su dinamiche di carattere relazionale rimanda necessariamente ai pensieri sulle pratiche di alcuni artisti degli anni ‘90 di Nicolas Bourriaud, e sono felice non faccia eccezione la mia, ma non riesco a riconoscermi in una definizione preferendo usare, in una medesima ricerca, dinamiche differenti, autonome ma complementari, come più metodi scientifici che avvalgano la medesima tesi.Lo strumento della mappa è centrale tanto nella pratica di Barbara quanto nelle riflessioni teoriche di Isolario. Nella sezione “glossario” Caotorta riporta due contributi significativi: del geografo Franco Farinelli e dello scrittore Italo Calvino. Da una parte Farinelli, alludendo alla prima tavola disegnata da Anassimandro nel VI secolo a.C., parla della mappa come raffigurazione di uno spazio. Dall’altra invece, Calvino pone l’accento sul tragitto scrivendo che “il primo bisogno di fissare sulla carta i luoghi è legato al viaggio”. In queste due definizioni le forme del disegno e del viaggio si uniscono e insieme riassumono la tua pratica di avvicinamento ai luoghi. Mi racconti dell’utilizzo della mappa all’interno del tuo lavoro, accennando anche a progetti differenti sviluppati nel corso degli anni?
Ancora una volta devo partire dai termini misura ed esperienza. Sono le due nature della mappa, come bene il glossario di Isolario esemplifica, che condensandosi divengono il processo di tutta la mia ricerca. Mi servo di alcuni esempi. Planning Constellation. Ho selezionato dalle risposte di 300 intervistati tredici architetture costruite dal secondo dopoguerra a Milano. Sono divenute i soggetti di tredici carte che allestite hanno dato vita a una mappa emotiva disegnata da chi vive la città. È una raccolta dati meticolosa e importante tanto quanto la parte relazionale. Le due nature sono presenti anche nell’evolversi del progetto. Per la realizzazione del libro con Alessandro abbiamo deciso di intraprendere i viaggi che ci avrebbero condotti alle mete indicate dalle interviste per una conoscenza sostanziale dei luoghi rivelata solo attraverso questa esperienza. Per Speaking Things, la mappa ha concretamente rappresentato il punto di partenza del progetto e quindi del contatto con gli abitanti. Disegnare la griglia urbana ha permesso di orientarsi a tutti coloro che hanno voluto partecipare alla creazione di incontri e accadimenti, trasformando la rappresentazione statica bidimensionale in un luogo vivo, nel tappeto performativo relazionale. La mappa astrale del progetto La luce naturale delle stelle, realizzata con le luci led istallate sopra la cupola esterna del planetario Hoepli, rappresenta le costellazioni presenti, ma raramente visibili dalla città, nel cielo di Milano il giorno dell’Equinozio di primavera del 2010. La forma simbolica delle costellazioni è tale solo per la comunità che l’ha costituita e ci si riconosce appartenenti come sentendo parlare la medesima lingua.La cosa che mi ha colpito di più, del tuo operare, è che sempre vai alla ricerca di luoghi o storie spesso sconosciute o ai margini. Mi vengono in mente La luce naturale delle stelle lavoro pensato per il Planetario Hoepli di Milano nel 2010 o Route to Identity realizzato nell’ex Acquario Romano tra il 2012 e il 2013. Il tuo è uno sguardo decentrato e orientato verso specifiche architetture della città. Mi racconti perché la tua scelta cade su queste storie e su questi luoghi? Come ti inserisci all’interno del dibattito, tutt’ora in corso, sulla relazione tra centralità e periferia?
L’acquario di Roma e il planetario di Milano sono stati esempio di eccellenza tecnica e scientifica negli anni della loro costituzione. Il pensiero innovatore e visionario di chi ha ideato questi istituti non ha trovato facile riscontro nel proprio contesto storico e sociale, che li relega a un ruolo marginale rispetto a quello per cui erano stati immaginati, arrivando anche a cambiarne definitivamente la funzione. I motivi che portano a queste evoluzioni di identità mi hanno fatto approfondire la storia di questi edifici e oggi, grazie all’interesse che molti trovano nell’indagine che si può effettuare al loro interno, riconquistano lentamente centralità come dimostrano la mostra e il convegno sul mio progetto To Identity prodotta e ospitata dall’Ordine degli Architetti di Roma e Lazio.Alessandro, nel novembre scorso hai curato presso la Triennale di Milano il convegno Are there geographies. Pratica artistica e ricerche geografiche. Partendo dal lavoro sviluppato con Barbara all’interno di Isolario, hai invitato oltre a lei differenti relatori: Pier Paolo Coro e Rita Canarezza di Little Costellation, Una Szeemann, Nataša Bodrožić e Ivana Meštrov. La scelta di unire insieme queste voci è dipesa da un loro comune orientamento di sguardo, verso quei luoghi da te indicati come “ad alta definizione simbolica”. Alla luce delle differenti esperienze di cui si è parlato, potresti darne una spiegazione, anche in relazione ai luoghi in cui opera Barbara?
L’idea del convegno Are There Geographies? è quella di un progetto curatoriale complesso, risolto nella forma dialogica di un seminario aperto al pubblico. È ormai da diversi anni che mi occupo di indagini che toccano questioni e argomenti di carattere geografico, in particolare curando il network di Little Constellation, un progetto di Rita Canarezza e Pier Paolo Coro dedicato all’arte contemporanea nei piccoli stati e nelle micro-aree geo-politiche d’Europa. È da questa esperienza e dal contributo essenziale di una persona che è stata per me un riferimento costante, Roberto Daolio, che nasce la definizione (elaborata da Pier Paolo Coro) di cui mi chiedi e che riguarda tutte quelle aree o quelle situazioni o, ancora, quelle occasioni in cui la dimensione simbolica di un luogo supera la sua stessa rilevanza fisica o geopolitica. Questa sensibilità rispetto ad aspetti profondi, propri dell’identità dei luoghi, è divenuta una sorta di caratteristica che ha potuto mettere in dialogo questo network con l’opera di Barbara e con altri autori o teorici con cui ho avuto modo di lavorare come per esempio Natasa e Ivana con cui (insieme ad altri) ho curato Mediterranea 16 XVI Biennale dei giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo nel 2013. Il progetto poteva, in effetti, diventare molte cose: una mostra, un’ulteriore pubblicazione, ma l’idea era quella di un confronto vivo e reale, così è nato il convegno.